Canottaggio Femminile – Intervista ad Antonella Corazza

Sulla scia dei meravigliosi risultati ai Mondiali di canottaggio di Linz, in cui l’Italia al femminile è riuscita a qualificare per le Olimpiadi di Tokyo 2020 per la prima volta nella storia quattro equipaggi, ci facciamo raccontare da una delle pioniere del movimento femminile italiano cosa volesse dire essere donna e atleta negli anni ’80

Ciao Antonella. Ci racconti cosa voleva dire per una donna fare canottaggio 35 anni fa?

Ciao Edoardo! 35 anni fa io avevo… 19 anni ! Cavolo, mi sentivo così grande e capisco ora quanto ero giovane. Avevamo dei sogni, non erano obiettivi, erano sogni. Ognuna di noi voleva remare, voleva scrivere un capitolo della storia di questo sport. Ma ci credevamo solo noi all’inizio. In società mi allenavo da sola, ma anche 35 anni fa solo chi era davvero motivato andava avanti. È cambiato poco a livello societario, la differenza, seppur minima, è che forse i giovani allenatori si stanno rendendo conto del potenziale che hanno in società con una squadra di donne. Il settore femminile è ancora numericamente inferiore, questo è il motivo per cui forse è più facile ottenere risultati a livello societario, ma l’impegno per chi vuole ottenere un risultato è identico a quello dei maschi. Forse la differenza è l’apertura mentale verso il canottaggio in rosa, la spinta verso un risultato più completo a livello internazionale, parlo dell’Italia ovvio, perché all’estero ci sono arrivati prima di noi. Quando come Nazionale Italiana andavamo nei campi internazionali, la differenza numerica era evidente e non solo. Le altre Nazioni avevano la possibilità di selezionare donne fisicamente preparate con misure antropometriche al di fuori della nostra portata. Non c’era il controllo antidoping nel canottaggio e l’evidenza era sotto i nostri occhi. La nostra forza era la tecnica, remare bene e sfruttare quello che avevamo. Vi ricordo che le barche non erano Filippi e i remi erano Macon

Dove, quando e perché hai iniziato a remare?

Ho iniziato a Gavirate, io vivo sul lago di Monate, ma lì non mi hanno voluta, perché non avevano un settore femminile (questa l’incredibile verità) per cui mi hanno inviata a Gavirate. Ho iniziato perché remava mio fratello e aveva anche discreti risultati, io volevo fare meglio. Perché? Perché nella mia vita le paure le ho sempre affrontare di petto e io avevo paura dell’acqua, so nuotare ma non mi piace stare in acqua troppo a lungo, sopra è un’altra cosa.

Quale è stato il percorso personale, societario e Federale che vi ha portato alle Olimpiadi di Los Angeles ’84?

La presenza nello Staff Tecnico di Thor Nilsen ha portato un interesse verso il settore femminile. Il suo obiettivo era portare le donne alle Olimpiadi. Ero al posto giusto al momento giusto? Forse si, ma a 17 anni ho lasciato il nido domestico e con altre tre amiche siamo andate a vivere a Piediluco. Eravamo davvero le più forti d’Italia, abbiamo passato una selezione durata anni, non c’erano agevolazioni per noi così com’è ora, quello che dovevano fare gli uomini in proporzione dovevamo fare noi. Avevamo un responsabile del settore, Franco Parnigotto, una persona presente come un padre, un amico, un fratello. Abbiamo dato la nostra adolescenza per un progetto ambizioso, contro lo scetticismo maschilista della squadra, a partire dai colleghi. Se avevamo successo ( capitava spesso ), eravamo state fortunate, se andava male non ci risparmiavano da critiche e sarcasmo. Ma non ci siamo mai arrese perché era proprio questo che ci spronava a continuare, dimostrare che non eravamo solo corpi, sorrisi e voci allegre, ma eravamo atlete. Nilsen non credeva nelle nostre capacità, eravamo forti, ma per lui non abbastanza determinate. La sua esperienza con noi lo ha fatto ricredere  sulle donne italiane. Abbiamo qualcosa noi che non hanno nemmeno gli uomini, il desiderio di riscatto, dopo sentirsi continuamente dire che se non sei la migliore; prima delle gare ci veniva fatto un mini meeting, dove Nilsen ci diceva quello che sarebbe stato secondo lui il nostro risultato, ci dava indicazioni sulla tattica di gara e sulle avversarie ( secondo lui sempre più brave di noi ), ma non era mai il risultato che prevedeva. Era sempre il nostro risultato, quello che noi regalavamo a noi stesse, lasciandolo immancabilmente senza parole. Un aneddoto: una gara internazionale su due giorni. Il sabato la nostra singolista ufficiale fa il singolo e non arriva prima, noi quattro gareggiamo sul 4x+ vincendo senza storia,  la domenica io salgo in singolo e la singolista sale sul 4x+, Nilsen viene a parlarci, si scusa con me perché pensa che non potrò fare meglio della nostra singolista e spinge il 4x+ verso una sicura vittoria: io vinco senza storia mentre il 4x+ vince a fatica. Nilsen viene da me, mi guarda, scuotendo la testa dicendo” italian girl “. Per me grande soddisfazione.

Raccontaci l’esperienza Olimpica.

Da una parte c’era l’aspetto agonistico con il brillante sesto posto ottenuto, dall’altra hai partecipato all’Olimpiade del boicottaggio. Che aria si respirava?

 

Edoardo io avevo 19 anni! Non mi interessavo di politica, capivo solo che era la nostra occasione per dimostrare che quei due anni passati lontano dalla famiglia avrebbero avuto un senso. Ci allenavamo per affrontare le selezioni psicologiche e fisiche ad ogni raduno, sempre al top delle nostre possibilità perché solo così potevamo avere delle chance. Fino all’ultimo, il tecnico non credeva nella nostra capacità di passare tutte quelle selezioni, non ci hanno reso facile nemmeno la possibilità di preparare il viaggio con la squadra, siamo state le ultime a preparare i passaporti e a provare le divise, perché fino alla gara di Lucerna sul Rotsee non eravamo certe di andare. A Lucerna, c’era una tensione che si tagliava col coltello, quella era l’ultima possibilità che avevamo per farci accettare. In quella gara c’erano tutti i paesi, anche l’Est, era la loro Olimpiade. Alcune nazioni portarono due equipaggi per gara per avere più possibilità di vincere. Siamo arrivate quarte! Gara stupenda! Eravamo: io, Paola Grizzetti, Donata Minorati, Alessandra Borio e Timoniere Roberta Del Core. Per me è stata quella la nostra Olimpiade.

Arrivate a Los Angeles io ero in singolo (avevo vinto tutte le selezioni e qualificato il 4x+ – quattro di coppia con timoniere – con le mie amiche/colleghe), ero la singolista più forte della squadra in quel momento, al campionato Europeo ero arrivata seconda dietro l’atleta che l’anno prima era arrivata terza al mondiale, per cui ottimo risultato.

L’atmosfera era quella dei Giochi Olimpici, festosa e nella giusta misura tesa, eravamo giovani, troppi giovani per comprendere a fondo quello che stavamo vivendo, avevamo l’entusiasmo della nostra età e la felicità di aver coronato un sogno: essere ancora insieme nonostante lo scetticismo che si respirava nei nostri confronti.

Immagino tu abbia seguito i Mondiali di Canottaggio che hanno visto la storica qualificazione di ben 4 specialità femminili alle Olimpiadi di Tokyo 2020.
Un movimento cresciuto molto in questi anni.
Che idea ti sei fatta? Cosa è cambiato?

Che dire, forse adesso che la quota rosa è un obbligo anche nel canottaggio, le donne sono maggiormente accettate e volute, come è ovvio che sia, all’interno della squadra. Mi sembra assurdo fare delle considerazioni dove considerazioni non dovrebbero nemmeno nascere. Dovrebbe essere assolutamente normale e non stupire, che le donne siano in squadra e abbiano  qualificato le imbarcazioni. Ma come posso sentire dai commenti di professionisti, questo stupisce ancora. Credo che un grande passo sia stato fatto, ma siamo ancora molto lontano. Ci si stupisce ancora che le donne abbiano raggiunto un risultato che a fatica hanno raggiunto gli uomini. Si parla ancora di fortuna, di livello basso e via dicendo… in questo siamo ancora nel 1984. Non sono femminista, ma respiro questa atmosfera anche nella mia piccola società, a volte sorrido, ma mi rendo conto che la nostra cultura dello sport femminile è lontana anni luce da quella dei paesi anglosassoni.

Di cosa ha ancora bisogno il settore femminile per fare l’ulteriore salto di qualità che permetterebbe di portare a casa una medaglia olimpica?

Di cosa? Di normalità, accettare che sono donne, ma accettare anche che sono atlete e che se sono in squadra è perché se lo sono meritato, non hanno fatto altro che sognare e accettare le condizioni che sono uguali per tutti, uomini e donne, e non c’è un essere uomo o un essere donna, ma c’è un essere atleti. Forse ci vorrebbe un allenatore che segua un equipaggio maschile ed uno femminile insieme, così da comprendere quanto hanno da dare uomini e donne con lo stesso obiettivo nello sport, così come nel lavoro e nella vita. Questa potrebbe essere una bella esperienza per tutti gli allenatori.

Anche dopo che hai smesso sei sempre stata legata al mondo del canottaggio.
Ci parli di cosa fai attualmente e di come il canottaggio di alto livello ti abbia aiutato nel mondo del lavoro?

Diciamo che quando remavo ad alti livelli non c’era la possibilità di entrare nei corpi militari, non per le donne (ovvio). L’impegno di tempo e fisico erano notevoli per poter fare altro bene allo stesso modo, per cui mi sono diplomata con difficoltà, ostacolata anche dalla scuola che frequentavo, non c’erano sponsor e la mia società non poteva permettersi di stipendiarmi, per cui negli ultimi anni mi sono resa conto che non avevo una professione e che una volta smesso non avrei avuto un futuro lavorativo.
Per un certo periodo ho frequentato il corso per Tecnici di Radiologia ( laurea breve ), mi sono allenata e ho lavorato per pagarmi gli studi.
Sono stata fortunata, perché nel 1995 ho dovuto smettere di remare per un cancro al rene, mi sono laureata 7 mesi dopo e ho iniziato a lavorare un anno dopo. A nessuno interessava che io fossi stata una grande atleta, che avessi fatto le Olimpiadi e che avessi vinto in campo Nazionale,  Internazionale,  Europeo e Mondiale. Diciamo che è stato un periodo difficile, ma che grazie all’esperienza vissuta nello sport, la mia battaglia ha avuto il successo che come al solito era inaspettato.
Sono viva, remo ancora, lavoro nell’ambiente che è stato nella mia vita per gran parte di essa, sono apprezzata come allenatrice masters anche in Svizzera (abito vicino al confine) e da un club sempre masters inglese,  sono conosciuta e ancora cercata come atleta nel mondo, sto studiando e coronando un sogno che avevo nel cassetto, laurea in Psicologia, il prossimo anno il grande evento. Ma soprattutto, non ultimo, sono innamorata di un uomo fantastico, mio marito Pietro D’Antone, che ha una grande sensibilità e sostiene ogni mia decisione aiutandomi in un percorso di vita in continuo mutamento. Questo mi ha lasciato lo sport.

Stai portando avanti una bella iniziativa a favore delle donne colpite dal cancro al seno. Ce ne parli e ci spieghi come il canottaggio le sta aiutando nel loro percorso di guarigione sia fisico che mentale?

Bellissima esperienza! Dopo un comprensibile scetticismo iniziale, emerge lo spirito guerriero di queste donne meravigliose. Con Simona Lavazza, una donna fantastica, ex atleta della Tevere Remo, anche lei operata di carcinoma mammario, stiamo portando avanti un progetto che vuole coinvolgere la mia Società. Insegnare a remare a queste donne meravigliose, che nella loro vita si sono scontrate con un treno di dolore e lottano per stare al passo con la vita. Lo scopo è quello di aumentare il loro livello di autostima affrontando un percorso tecnico e competitivo (per chi se la sente), all’interno del nostro sport.  Fino ad oggi si è parlato di Dragon Boat per queste donne, più semplice e apparentemente più adatto, noi vogliamo portarle ad un altro livello quello della barca fuori scalmo, più impegnativa dal punto di vista tecnico e quindi anche mentale, distrarle per un paio d’ore da quella che è la loro malattia e aiutarle a sognare a trovare e raggiungere quella tenacia e passione che le contraddistingue. Stiamo lavorando su tutte le dimensioni, fisica, psicologica e motivazionale e funziona. Quando le vedo sorridere, ridere o piangere di gioia io guadagno in speranza e fiducia che anche loro come me e tante altre, possano uscire da questo tunnel.

Se pensi a 35 anni fa con la tua esperienza attuale, come affronteresti il fatto di essere stata una delle pioniere in una società ancora molto maschilista?

Credo si avere risposto a questa domanda. Ma posso aggiungere che il silenzio alimenti l’ignoranza, quello che stai facendo tu, lo hanno fatto in pochi e le mie parole o quelle di altre atlete, hanno sollevato polemiche che poi si sono spente.

Occorre portare avanti un discorso “femminista” che alla fine avrà sempre toni spenti, perché questo argomento scotta, imbarazza, crea paura e a volte preoccupazione, le donne non vogliono prendere il posto di nessuno, vogliono solo il loro posto, quello che gli spetta per diritto e non per concessione. Parlarne parlarne e parlarne, perché solo così diventerà “normale” cercare di vedere le cose con uno sguardo più rosa, meno scettico e  meno condizionato. Quello che ho fatto 35 anni fa lo farei ancora, perché io sono questa, una donna che ha sempre dovuto dimostrare di non essere solo carina e dolce, ma anche capace.

E cosa diresti ad una quindicenne di oggi, in un mondo apparentemente cambiato, ma di fatto no?

Di rispettare se stessa. Di essere protagonista in questo mondo. Di non lasciarsi convincere che puoi solo guardarlo dalla finestra. Che se vuoi ottenere, devi cercare la motivazione giusta per farlo, devi volerlo più di chiunque altro, lavorare sodo e non smettere di cercare.

Edoardo Verzotti

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